Come far reggere nel lungo periodo il sistema previdenziale italiano? Questo è il dilemma, soprattutto alla luce del fatto che il nostro è uno dei Paesi con il più basso tasso di natalità al mondo e con una percentuale di invecchiamento della popolazione tra le più elevate. In più occorre considerare che in un contesto di mercato in continua evoluzione, non tutti i cittadini hanno la garanzia di poter avere un lavoro per almeno 40 anni. Mantenere in attivo le casse dell’Inps si presenta, quindi, come un obiettivo arduo da raggiungere anche perché in Italia ci sono alcuni dati che fanno pensare, come bene evidenziato dall’ ultima analisi del Centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali di Alberto Brambilla dal titolo La Regionalizzazione del Bilancio Previdenziale italiano, che Marilena Gabanelli nella sua rubrica Dataroom ha messo in fila in modo più che chiaro.
Tasso di copertura nazionale all’80,45% ma…
Al momento, infatti, il totale dei contributi versati all’Inps e alle altre casse previdenziali dai lavoratori nazionali ammonta a 200,3 miliardi e le uscite per pagare le pensioni sono di 248,99 miliardi. Se la matematica non è una opinione c’è un buco da 48,68 miliardi. Questo significa che il tasso di copertura nazionale è pari all’80,45%. Ma a livello regionale, come riportato dal Corriere della Sera, il tasso di copertura è del 75% solo in 9 Regioni: Trentino-Alto Adige (unica regione pienamente autosufficiente, 103%); Lombardia (99%), Veneto (93%), Lazio (90%), Emilia-Romagna (87%), Friuli-Venezia Giulia (78%), Valle d’Aosta e Toscana (76%) e Marche (75%).
In Calabria, invece, è del 50%; in Molise del 57%; in Puglia del 60%; in Sicilia del 61%. E la lista continua: Basilicata 62%; Sardegna 63%; Liguria 65%; Umbria 66%; Campania e Abruzzo 68%; Piemonte 73%.
Le tre zavorre
A pesare sulle casse Inps ci sono tre zavorre.
La prima: le pensioni integrate al minimo che sono 2,5 milioni con una spesa di 6,4 miliardi. Sono quelle che scattano quando si sono versati contributi per almeno 15-20 anni (come prevede la legge per prendere la pensione), ma che non raggiungono il minimo per avere una pensione da 563,74 euro al mese (nel 2021, anno di riferimento dei dati, il valore è di 515,58 euro). La differenza ci viene integrata. E i casi di integrazione sono più numerosi al Sud che al Nord.
La seconda zavorra sono le cosiddette pensioni sociali che sono 816.701 per quasi 5 miliardi di spesa. Assegni che vengono versati quando non abbiamo pagato i contributi neanche per 15-20 anni. Per riceverli basta avere 67 anni d’età, residenza in Italia e un limite di reddito annuo che per il 2023 è stato fissato a 6.542,51 euro. Anche qui ci sono differenze a livello regionale e non di poco. Al Nord la spesa per le pensioni sociali è di 1,2 miliardi con un assegno ogni 143 abitanti; al Centro di 995,5 milioni con un assegno ogni 73 abitanti; e al Sud di 2,7 miliardi con un assegno ogni 43 abitanti.
Resta la terza zavorra che è rappresentata dalle pensioni di invalidità; sono 974.813 e valgono 12, 5 miliardi. Al Nord ne viene erogata una ogni 88 persone, al Centro una ogni 57, nel Mezzogiorno una ogni 44. Nel dettaglio: in Campania una ogni 51 abitanti, in Puglia una ogni 39, in Sicilia una ogni 55. In Lombardia e Veneto, ce ne sono rispettivamente una ogni 110 e 102 abitanti.
Dove intervenire
Le evidenti differenze tra il Nord e il Sud del Paese disegnano un sistema dove ancora trovano ampio spazio i furbi e gli approfittatori a discapito di chi davvero ha necessità di ricevere un assegno di invalidità o sociale per sopravvivere. Per non mettere a rischio il sistema pensionistico Italiano è necessario correggere al più presto anche le storture a livello regionale. Il che significa intervenire sulle politiche regionali del lavoro; fare investimenti sulle infrastrutture strategiche (trasporti, energia e insediamenti produttivi), che stanno oggi penalizzando anche Piemonte e Liguria; attivare un controllo sistematico sull’evasione contributiva e correggere la piaga atavica delle invalidità.